Mercato del Villaggio Olimpico
Dalla fine degli anni Ottanta nelle strade che si dipanano dietro al palazzo del Coni al Villaggio Olimpico, a due passi dall'Auditorium di Renzo Piano e dal Palazzetto dello Sport progettato dall'arch. Annibale Vitellozzi con la collaborazione dell'ing. Pier Luigi Nervi, si svolge ogni venerdì mattina un mercato che ha fatto dell'usato e del nuovo in stock il suo punto di forza.
Tra i banchi del mercato
Qui da tutta Roma nord, ma in realtà in tempo di crisi anche da tutta Roma e da fuori, vengono signore in cerca di capi firmati a poco prezzo, di scarpe, di abbigliamento di seconda mano, un centinaio di banchi dopo che gli abusivi negli ultimi anni sono stati fatti sgombrare. C'è anche qualche banco alimentare: una paio di frutta e verdura, panifici con rivendita di formaggi, salami, qualche fioraio, i casalinghi, i prodotti per la casa e quelli per l'igiene e la bellezza, bigiotteria e perline. Ma lo zoccolo duro della clientela viene per le scarpe e l'abbigliamento con alcuni banchi capaci di mettere capi ad un euro accanto a pellicce da mille.
Per l'usato i punti di riferimento storici del mercato sono Beppe, che con la sua rete di famigliari (figli, nipoti e cugini) ha tre banchi di abiti di seconda mano, lo riconoscerete però dal cartello Tommaso (dal nome di uno dei figli), e Caterina. Entrambi napoletani, ci sono da quando esiste il mercato. “Una volta ci si guadagnava ora appena si sopravvive - si lamenta Caterina che con la figlia gestisce un banco che vanta abiti tirolesi e un discreto assortimento di abiti da cerimonia di strass e paillettes – oltre a questo mercato andiamo anche a Porta Portese e Fregene, ma praticamente non vale più la pena. Io continuo per aiutare mia figlia che ha aperto un ristorante, poi l'ha chiuso e ha ancora debiti da pagare”.
Ma non ci sono solo quelli che si lamentano, per molti commercianti il richiamo del mercato del venerdì del Villaggio Olimpico ha ancora il suo valore e la clientela accorre soprattutto per coloro che hanno messo su un banco specializzato. Come Gianluca che ha un banco di pelletteria vintage. “Il nostro è un prodotto molto particolare, ormai quasi irreperibile. Sono lavorazioni della pelle che in Italia a partire dalla fine degli anni Ottanta non si fanno più. Per non parlare poi delle borse di rettile (pitone, coccodrillo e tartaruga) che ormai sono fuori mercato ma che noi diamo a prezzi concorrenziali”. Accanto alle borse poi Gianluca propone abiti per bambini fino a otto anni che provengono dal Madagascar. “E' un artigianato familiare fatto a mano seguendo la tradizione dell'insegnamento delle suore missionarie francesi con stoffe e colori di buona qualità”.
Per chi non si accontenta dell'artigianato del Madagascar invece può trovare banchi dedicati al firmato per bambini (marchi come Patrizia Pepe, Dolce e Gabbana) a prezzi tutto sommato accettabili. Poi ci sono le bancarelle dedicate all'abbigliamento americano: le camicie di Brooks Brothers, le felpe Abercrombie e Hollister. Tra i primi banchi venendo da viale Tiziano ce n'è uno che vende capi Max Mara senza etichetta ma originali ovviamente a prezzi vantaggiosi.
Tra quelli che hanno scelto un settore molto particolare c'è Massimo che con sua moglie a partire dagli anni Settanta ha cominciato per passione ad andare e tornare dall'India e poi ha trasformato il suo amore per quel paese e le sue stoffe in una professione. “Il banco ce l'abbiamo da quindici anni e poi nel tempo abbiamo aperto anche un negozio a viale Parioli. Inizialmente importavamo abbigliamento indiano, erano anni diversi e poi siamo passati alle stoffe d'arredamento”. Il nome del banco e del negozio, Mezzari, viene dall'arabo mì zar (velo) termine che si iniziò a conoscere in Europa a partire dal XVII secolo quando le compagnie di commercio iniziarono il processo di scambio con l'India. A Genova le signore del tempo lo usavano come "velo di testa" ma sia in Italia che in Europa il mezzaro influenzò profondamente anche l'arredo domestico e così tende, tovaglie, copridivani, cuscini che Massimo e i suoi famigliari reperiscono con due viaggi all'anno in India. Ad aiutare Massimo nel suo lavoro ci sono anche i suoi due figli che hanno nomi indiani: Madawa che vuol dire “sposo della fortuna” e Govinda che significa “colui che soddisfa tutti i desideri”. Alla faccia della coerenza.
Il paese di Alice
"Alla fiera dell'Est per due soldi un topolino mio padre comprò... La conoscete questa canzone? L'avete mai sentita? Io la ascolto spesso in macchina mentre vado da qualche parte con mamma e papà e l'ho sentita anche il giorno che sono stata al mercato del Villaggio Olimpico, che è un mercato che c'è solo una volta la settimana e viene gente anche da tanto lontano.
È un mercato grande con un sacco di cose: vestiti, scarpe, stoffe, piatti, bicchieri, borse, fiori, collane, pane, salami, frutta e fiori. Ma nessun topolino, né un gatto, né un cane. Nessun bastone, né fuoco, né acqua (se non qualche bottiglia di minerale). Nessun toro, nessun vero macellaio solo uno che vendeva salsicce. Per non parlare poi dell'angelo della morte... Quello non c'era sicuro. Alla fine del giro ero un po' delusa non per l'angelo della morte, si intende. Nè per il macellaio, per il toro, per l'acqua, per il fuoco o per il bastone. E neppure per il cane o per il gatto. Però in quel grande mercato un topolino, sì un topolino speravo proprio di vederlo".
Quattro passi più in là
Prima che arrivasse l'Auditorium di Renzo Piano a cambiarne l'aspetto e la vocazione, l'area che un tempo aveva ospitato le baracche della borgata spontanea conosciuta come “Campo Parioli” era stata indissolubilmente legata a un'arte antica almeno quanto la musica: lo sport. E lo era ancora prima dei giochi del 1960, l'evento che ha segnato la storia del quartiere e gli ha regalato anche il nome: Villaggio Olimpico. Un esempio è lo STADIO FLAMINIO. L'aspetto attuale lo dobbiamo all'architetto Antonio Nervi e al padre Pier Luigi, il geniale ingegnere che apporrà la propria firma a tutte le principali opere realizzate per i Giochi. Ma lo stadio – completamente ricostruito nel 1957 – sorgeva sulle ceneri e sul perimetro esatto dello Stadio Nazionale, costruito nel 1911 sul modello delle antiche arene elleniche dal nume del razionalismo Marcello Piacentini. Ribattezzato nel 1927 Stadio del Partito Nazionale Fascista, è con questa denominazione che ospiterà la finale dei Mondiali di calcio del 1934. E' qui che il calcio italiano scriverà una delle sue pagine più gloriose, conquistando la coppa ai supplementari in una durissima sfida con la Cecoslovacchia. A proteggere la difesa dagli attacchi avversari c'era un mediano con due caratteristiche: era un idolo dei tifosi di casa e a quei mondiali non ci doveva essere. Si tratta di Attilio Ferraris, stella della Roma, appassionato di pallone almeno quanto lo era delle belle donne, degli abiti eleganti e delle auto sportive. I cronisti dell'epoca raccontano di come il ct Pozzo sia andato personalmente a stanarlo nel bar che Ferraris gestiva nel natìo rione di Borgo e lo abbia trovato al tavolo del biliardo con una stecca nella mano e una sigaretta (una delle quaranta che fumava ogni giorno) nell'altra. E di come abbia convinto un giocatore imbolsito e ormai convinto di aver chiuso con il calcio a diventare nel giro di un mese una colonna della prima squadra azzurra ad arrampicarsi sul tetto del mondo. Oggi Ferraris riposa al cimitero del Verano, e sulla sua tomba c'è scritto, semplicemente: Campione del Mondo. Quanto allo stadio teatro delle sue gesta, prima della demolizione farà in tempo a ospitare qualche derby capitolino e a fare da sfondo all'ultima, struggente scena del film “Ladri di biciclette”. Nella sua nuova veste, gli eventi più memorabili ospitati dal Flaminio non riguardano il calcio: dal primo “derby del cuore” di beneficenza, al primo concerto italiano di Michael Jackson (il 23 maggio del 1988). Ma la data da consegnare alla storia è il 5 febbraio del 2000, quando l'Italia fa il suo ingresso nel salotto buono del rugby europeo debuttando nel “Sei Nazioni”, il torneo che alle storiche cinque sfidanti è arrivato col nuovo millennio ad aggiungere gli azzurri. E la data, già memorabile di per sé, lo diventa ancor di più al fischio finale, che sancisce la sorprendente vittoria sulla Scozia per 34-20.
Qualche passo più là, ed ecco di nuovo la “griffe” dell'ingegner Nervi, che quarant'anni prima degli “scarafaggi” di Renzo Piano aveva posato sul Villaggio Olimpico un insetto dall'elegante corazza e dalle eleganti zampe di cemento armato: la copertura del PALAZZETTO DELLO SPORT progettato da Annibale Vitellozzi. Come lo stadio Flaminio è sempre stato una sorta di parente povero del vicino e più capiente Olimpico, anche il Palazzetto ha giocato un ruolo di secondo piano rispetto al fratello maggiore dell'Eur. Fin dai primi giorni, quelli delle Olimpiadi. E così, mentre nel Palazzo un giovane pugile di nome Cassius Clay rivelava al mondo il suo straordinario talento, il Palazzetto ospitava le più prosaiche gare di sollevamento pesi. Stessa storia per il basket: all'Eur la finale, al Villaggio le gare di qualificazione. Ma è qui che il 26 agosto del 1960 l'Italia potè assaporare dal vivo – sotto il gusto amaro della sconfitta - il sapore inconfondibile della leggenda. Il punteggio non lascia margini alla suspense: l'88 a 54 con il quale gli Stati Uniti liquidano gli azzurri non ammette repliche. Ma scorrere il tabellino di quell'incontro mette i brividi, perché quella americana – ancora composta di soli giocatori universitari – è probabilmente la più forte squadra non professionista di tutti i tempi. Vi fanno parte quattro giocatori destinati ad accedere alla “Hall of Fame”, il Pantheon della pallacanestro mondiale. Tre di loro hanno fatto la storia del gioco a suon di record. C'è Jerry Lucas, l'unico insieme a Wilt Chamberlain a chiudere una stagione con una media di 20 punti e 20 rimbalzi a partita. C'è Oscar Peterson, l'unico a chiudere una stagione in “tripla doppia” (almeno 10 punti, 10 rimbalzi e 10 assist di media a partita: semplicemente pazzesco). E c'è Jerry West, per il quale, più che le statistiche, parla un fatto: è sua la silhouette del giocatore che compare sul logo ufficiale della Nba.
Ma vale la pena di scorrere anche il tabellino degli sconfitti, per imbattersi in due nomi malinconicamente inchiodati allo “zero” nella casella dei punti segnati, eppure destinati a scrivere la storia del nostro basket. Uno è Sandro Riminucci, l'“angelo biondo” che con i suoi 77 punti in una sola partita ancora oggi detiene il record per la massima serie in Italia. L'altro ha in comune il nome di battesimo, Sandro, e la squadra di club, l'Olimpia Milano. Di cognome fa Gamba, e di strada ne farà molta, fino a diventare nel 1983 l'allenatore della prima squadra azzurra capace di vincere un campionato europeo. In quel 26 agosto, l'allora 28enne maltrattato sul parquet dagli dei del basket a stelle e strisce ancora non sa che un giorno sarà ammesso nel loro Olimpo: nel 2006 Sandro Gamba sarà infatti il terzo (e finora ultimo) italiano a entrare nella Hall of Fame.
Se la storia di Gamba è un invito a imparare dalle sconfitte e a inseguire i propri sogni anche quando sembrano irrealizzabili, proprio all'ombra del Palazzetto dello Sport c'è uno spazio che sembra invitare ad allenare i sogni. Uno spazio dedicato agli sportivi in erba, quelli che sfoggiano un ginocchio sbucciato con l'orgoglio di chi ostenta una medaglia d'oro. Da poco più di un anno è attivo il PARCO GIOCHI PRIMO SPORT del Laboratorio 0246, un'associazione no profit che si dedica a promuovere iniziative per lo sviluppo motorio dei più piccoli. Il parco, unico nel suo genere a Roma, è diviso in quattro aree (“equilibrio”, “manualità”, “mobilità” e “gioco simbolico”) e sei piazzole (ognuna destinata a una fascia di età, dagli 0 ai 6 anni), secondo uno schema messo a punto da un'equipe dell'Università di Verona. Di tutto questo disegno, ciò che i bambini vedono è un alternarsi di altalene e scivoli, torri e tunnel, dondoli e cavallucci, assi di equilibrio e pareti da arrampicata, che ne mettono alla prova abilità e riflessi. E a mettere la faccia sull'iniziativa è un'atleta che nel Villaggio Olimpico non può che sentirsi di casa: presidente del Laboratorio 0246 è infatti Valentina Vezzali, la fiorettista che con le sue 9 medaglie olimpiche – di cui 6 d'oro – è la sportiva azzurra più titolata nella storia dei Giochi.
DOVE | via XVII Olimpiade |
GIORNI DI APERTURA | solo il venerdì |
ORARIO | 07:00 – 14:00 |
parcheggio | strisce blu lungo le vie adiacenti il mercato |
AUTOBUS e metro |
dalla stazione Termini metro A (Battistini per 4 fermate) e tram 2 per 5 fermate fino a Tiziano/XVII Olimpiade |